Riflessione mandalica al 35° giorno di quarantena.
La sensazione di camminare su un filo sospeso su un abisso di incertezza e confusione, cercare un appiglio per non precipitare e istintivamente trovare quell’appiglio nell’amore per noi stessi, la fiducia nelle nostre possibilità, la capacità di stare in compagnia della nostra anima, della solitudine e della perdita.
Non è facile, ma è possibile.
Accettare la sofferenza, la fragilità dello spirito e delle certezze su cui si basa la vita quotidiana e rendersi conto della banalità di certi pieni che si rivelano vuoti, la gioiosa speranza di certi vuoti che si trasformano in pieni. Dunque la piena luce, il pieno amore, la piena consapevolezza dei limiti e delle regole si offrono a noi come un gancio nella nebbia dell’insicurezza per sollevarci e sostenerci.
La vita è slancio, è confusione, è ricerca costante di equilibrio tra poli opposti che si attraggono e si respingono. C’è il rischio concreto di perdersi, certo ma l’esperienza insegna che se non ci si perde non ci si ritrova. Il caos è il principio di un nuovo ordine.
L’appiattirsi su sicurezze, ora vacillanti, non rende un buon servizio e nemmeno più forti. Forse sul momento può rassicurare ma è necessario accettare la sfida di vivere. E questo significa attraversare i campi della disperazione, vedere il nostro mondo illusorio andare in frantumi, sostare tra le rovine e respirare. Respirare e comprendere che in mezzo al dolore e al disastro, siamo ancora vivi. Possiamo recuperare piccoli frammenti di verità e bellezza per sostenere il nostro ritorno all’esistenza. Non la stessa. Non è possibile. Non si torna mai indietro, ma possiamo capire cosa significhi “essere in divenire”. Un divenire coraggioso e vitale. Per operare questo passaggio è necessario rapportarsi alla morte, la perdita dei riferimenti, a volte di persone care, la perdita di lavoro, fare i conti con la perdita della dignità di esseri umani calpestata dalla necessità del profitto di una civiltà aggressiva e competitiva, violenta e disumana. Ci rendiamo conto che ci sono tanti tipi di morte e che questa fa parte della vita.
L’atteggiamento di rifiuto, di paura, di disperazione nei confronti della morte sono segni di umanità. Ce lo insegnano tutte le scritture sacre. Anche i santi hanno paura, anche Gesù ha paura sul Monte degli Ulivi, “…allontana da me questo calice” sospira in un momento di pura disperazione. E Buddha parla di morte, di trasformazione e di evoluzione nei suoi insegnamenti. La leggenda racconta che il principe prima di diventare Sakyamuni (il Saggio dei Sakya) abbia fatto il giro della città incontrando quattro personaggi diversi uno fuori da ogni porta. Come in un mandala vide ad oriente un vecchio, a sud un malato, a ovest un cadavere e a nord un saggio. La sua via verso l’illuminazione comincia nel momento in cui incontra il dolore e la tragedia umana.
L’evento shock, l’incontro con il dolore e il dramma, avvia il compimento di una storia e la narrazione della realtà diventa sacra, santificata dalla prova e cambia la storia stessa, promettendo liberazione, salvezza e un’altra vita.
In entrambi i casi solo quando si ha il coraggio di confrontarsi fino in fondo con la morte, con la devastazione, con il buio, solo allora si tocca il fondo e si può avviare un percorso di rinascita. E noi che santi non siamo, ma umani sì, cosa possiamo fare in questo momento così turbolento per le nostre vite?
Possiamo scegliere. Decidere cosa fare di questa prova, come gestire questo dolore e queste emozioni così forti e moleste. Possiamo iniziare un cammino fatto di piccoli passi per recuperare un nuovo approccio a noi stessi, alle nostre priorità, ai valori che ci determinano, contribuire cominciando da noi stessi alla costruzione di una società diversa, più umana basata su un “sano” rapporto con gli altri. Possiamo nutrire i nostri gesti e le nostre azioni quotidiane, le nostre scelte di consapevolezza, compassione e gentilezza. Un percorso che ci spinge a guardare verso l’umanità intera per scoprire, ancora una volta, fonti di amore e saggezza condivisibili e condivise. Un percorso che potrebbe finalmente portare ciascuno e tutti a sentirsi parte della comunità umana.
Photo By Celtic Artist Jen-Delyth